lo scrittore missionario
Più dell’Inchiostro il
sangue – parodia personal writer.
CAPITOLO 1
Il mio rapporto con l’anonimato
è tranquillo. Lo ignoro e lui fa altrettanto. Sono sincero, a volte
mi arrabbio un po’ quando leggo due righe di Culicchia su “Torino
7” o sento insospettabili lettori fare panegirici sulle doti di
scrittrice di Luciana Littizzetto. Il fastidio di un attimo, nulla
più. Un piccolo sussulto, eredità di un passato da peccatore
comune, un breve scatto di nervi contro un anonimato pacato e
innocente che mi sta addosso benevolo come le mani di Claudia, la mia
amica infermiera appassionata di lune piene e parcheggi.
Lui, l’Anonimato, è paziente.
È superiore alle miserie altrui e se la gode in mezzo alla folla, in
coda al supermercato, o seduto di fronte a un assicuratore o ad un
promotore finanziario, felice che neppure loro ti stiano rivolgendo
la parola.
Stiamo bene insieme, io e
l’Anonimato, sulla strada a bordo della Saxo scassata ereditata dal
mio vecchio, senza pensieri. Senza lacché tra i piedi e senza le
orde di ragazzine, vuote e avvenenti, che sbiancano per averti
riconosciuto. Senza mani sudaticce da stringere e completamente
immune a quella smania autolesionista di incatenare il futuro ad
annotazioni scritte di sghimbescio sulla pagina zeppa di un’agenda.
Mi piace essere padrone assoluto
del mio tempo e per questo ho scelto il mestiere che faccio: lo
scrittore missionario.
Ho 40 anni. Vivo solo in un
piccolo appartamento in affitto. Ho la bandiera della pace appesa sul
muro di fronte all’ingresso. Una gabbietta per criceti
completamente foderata da fogli di giornale ingialliti, ricordo di un
criceto che non c’è più. Uno zainetto pieno di dattiloscritti.
Nove chili di sorbetto al limone stipati nel frigidaire. Pile di
vestiti lasciati per terra. Il mio diploma di laurea appeso sopra lo
sciacquone del gabinetto, utile per un’emergenza dopo l’ultimo
strappo. L’abbonamento Curva Maratona stagione 91/92 nel
portafoglio, tanto per fare spessore.
Sono agnostico, apolide per
vocazione, completamente calvo. Vivo a Torino e tutta la mia vita è
dentro un portatile di seconda mano e sparsa nei CD di back up che
tengo nel cassettone vicino al letto, sotto le mutande.
L’ultimo capello mi ha lasciato
la sera in cui persi la verginità, nell’estate del 1987 o giù di
lì. Imparai quella sera che io, minimo, perdo sempre due cose per
volta: un paio di euro e i numeri buoni della lotteria, lo stop
all’incrocio e il paraurti davanti, mia moglie e il mio miglior
amico.
E adesso non fatevi illusioni per
questo inizio così promettente, ho anch’io le mie righe noiose, le
mie pagine interlocutorie e i miei momenti di malinconia. Ma non
all’inizio, perché gli inizi sono il mio forte.
Essere qualcosa di considerevole,
nei primi metri di un lungo percorso, è un fondamento di ciò che
sono. Amo sentirmi respiro puro della creatività fatta parola,
quando la pagina bianca emette un suo vagito e diventa un sentiero di
frasi, una voce suadente che inchioda il lettore al testo,
strappandolo dalla tirannia del telecomando per ripetere, grosso
modo, il miracolo di Gesù con Lazzaro.
Non voglio vantarmi, ma l’incipit
di “Credici fin che puoi”, capolavoro strappalacrime firmato da
un noto agente di borsa, mio affezionatissimo discepolo, ha fatto
piangere lungamente perfino il tipografo che stampò le uniche
cinquanta copie finora conosciute. Copie inizialmente destinate a
parenti e amici ma poi, più saggiamente, conservate nel fondo buio
ed umido di un sottoscala.
Ed è questo il grato compito
dello scrittore missionario che vaga per il mondo e raccoglie la
richiesta dell’umile aspirante autore, non solo per aiutarlo a
scrivere, ma ancor più per dargli l’illusione di saperlo fare. Ed
io, con la forza della grazia data dall’incontro intimo tra il
talento e l’altruismo, entrambi coltivati con modestia, curo
l’inizio di queste opere perdute e perdibili come un buon padre
dovrebbe fare coi figlioli, tenendoli per le ascelle finché non
sanno camminare, educandoli nel parlare e nel pensare, per poi
lasciarli andare liberi con le loro gambe.
Come la natura insegna,
l’imprinting è il momento culminante, è l’attimo in cui il
neonato riconosce l’autorità di un genitore e fa voto di
imitazione. Per questo, le prime pagine sono le più importanti e si
colorano della forza del più autentico stile missionario.
E sempre, quando si scrive un
racconto, è bene cominciare da se stessi. Nel mio caso, da una
camminata strascicata, i jeans sgualciti, un maglione che nasconde
l’azzurro turchino di un comodo pigiama e una barba di tre giorni,
lasciata lì per punzecchiare le guance di pesca di qualche bella
figliola.
All’inizio, c’è una persona
che ha sentito dire da un’altra persona che c’è un tale, Enrico
Valli, il sottoscritto, che scrive bene e che aiuta la gente a farlo.
Non è uno qualsiasi, è quel simpatico pelato che intrattiene il
pubblico variegato delle biblioteche civiche cittadine e di provincia
in allegri incontri di lettura teatrale: sua la voce e suo il testo.
Ed è sempre lui, il profondissimo poeta stacanovista, immancabile
frequentatore di tutti i concorsi di quartiere, e già trionfatore
del “Festival dei
versi sversi”
organizzato da un’associazione di etilisti orgogliosi di esserlo.
Brava gente, dei veri signori che oltre all’assegno ti offrono
anche la cena.
All’inizio c’è un foglio
word, versione 97, macchie grigie sullo schermo consumato e il tasto
della “U” che rimane appiccicato al dito.
All’inizio c’è sempre una
strana energia positiva, qualcosa di simile all’autostima e un
sentore di benessere totale e appagante. All’inizio c’è un
bisognoso di soccorso umano e letterario, e quando è un buon inizio,
questo bisognoso è una donna e se l’inizio è strepitoso, è una
bella donna.
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