la scuola di Mosè
...all’inizio,
prima ancora di imparare a stare fermo, ero un bambino come tutti gli
altri. Beh si fa per dire, perché non ero come tutti gli altri, non
come quelli che hanno una famiglia.
I
miei mi avevano abbandonato, ancora in fasce, nel bel mezzo della
piazza del quartiere Lanterna, dove la periferia della grande città
va a morire nel mare.
Nonna
Giovanna mi aveva trovato e mi aveva portato con sé.
Lei
viveva con Mosè, suo fratello, ed insieme avevano deciso di tenermi
e di chiamarmi Ismaele. Così, per sei anni, loro furono la mia casa.
Dovete
sapere che Mosé era una mente semplice, meno qualche rotella, e
l’unica cosa che sapesse fare era l’addestratore di cani. Perché
i cani come li capiva lui non li capiva nessuno.
Poteva
essere un mastino napoletano, un pastore tedesco, un bassotto o che
so io… buono, cattivo, scontroso o festante, ma lui, benché non
sapesse spiaccicare sette parole in fila, dopo poche ore li aveva già
messi in riga.
«A
cuccia, su le zampette, riportami il bastone...»
Tutto
quello che serve ad un cane per farsi strada nella vita.
Sin
da piccolo lo vedevo nel giardino dietro la casa, ritto davanti ai
cuccioli che la gente gli affidava, felice di fare quel mestiere.
Per
lui, quella era la scuola.
«Vado
a scuola!» diceva la mattina presto, ed usciva per fare lezione.
Tornava solo per mangiare o per dormire.
Al
resto delle cose da fare ci pensava nonna Giovanna. Di tanto in
tanto, però, veniva a trovarci una misteriosa signora col viso
raggrinzito come una patata e impacchettato dentro un grosso foulard.
Si chiamava Adelina ed arrivava sempre tutta carica di borse. Entrava
in cucina senza salutare e se ne andava come se nulla fosse. Quelle
sere mangiavamo cibi precotti.
Io
non badavo a queste strane visite. Mi interessavano di più i cani,
naturalmente.
A
Mosé, però, non garbava affatto che qualcuno disturbasse le sue
lezioni.
«Vai
via... non vedi che si distraggono quanto ci sei tu?»
Così,
mi toccava guardare da lontano, finché le cose cambiarono.
Quando
infatti morì la mia povera nonnina, all’improvviso, dopo aver
sparecchiato il tavolo e quasi quasi lavato i piatti, ci ritrovammo
io e lui soltanto.
Veniva
allora più spesso l’Adelina a portarci scorte di cibi precotti che
io imparai presto a scaldare nel forno e a mangiar caldi.
Finita
l’estate, avendo sei anni suonati, mi vennero a cercare i
carabinieri.
«Il
bambino deve andare a scuola!» dissero a Mosé, con tono
autoritario.
Lui
strabuzzò gli occhi, ma benché non fosse troppo sveglio, sapeva
bene anche lui che agli uomini in divisa non si può dire di no. Così
annuì, si fece scuro in volto e si persuase a portarmi a scuola.
Alla
sua, però.
Il
giorno dopo cominciai a partecipare alle lezioni d’addestramento.
«Stai giù... cammina a quattro zampe!»
«Mosé,
così mi sporco i pantaloni.» Replicavo timidamente.
«Quante
volte ti devo dire che un bravo cane non parla...»
Mi
faceva stare a cuccia col sedere per terra e le braccia a penzoloni e
trovava strano che non tirassi fuori la lingua.
«Su,
fai il bravo, Bobi...»
Adesso
gli piaceva chiamarmi così, mentre mi accarezzava i peli del
maglione di lana che a forza mi aveva costretto ad indossare.
Ben
presto smise di distinguermi dagli altri cani.
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