la confessione
Nel mezzo di un salotto vuoto di una casa
disabitata, un cellulare abbandonato sul pavimento muggiva una
suoneria stridente, quasi cacofonica, inondando la stanza di echi
fastidiosi. Andava avanti per qualche secondo poi smetteva.
Nel silenzio, il gocciolare del lavandino della
cucina tornava a far sentire il suo tambureggiante sussurro. Questo
nuovo suono cadenzava l’attesa dell’uomo accovacciato sul
davanzale della finestra.
Il resto era un’infinita distesa di granelli di
polvere che fluttuava per proprio conto, incurante ora della
cantilena del gocciolare del lavandino ora della musica stonata
dell’elettronico marchingegno tascabile.
Tra sé e sé, Sergio Vettore, pensava: «Forse
devo spegnerlo… forse mi sentiranno…»
Si riferiva al cellulare, ma in realtà, non aveva
alcuna intenzione di dare seguito a quei propositi. Gli era caduto
per terra mentre saliva sul davanzale e là l’aveva lasciato, senza
darsi alcuna pena di raccoglierlo.
Preferiva il suono familiare della propria
suoneria a quel battere lento e inesorabile delle gocce cadenti.
Queste gli infliggevano invisibili punture di spillo fin dentro il
cervello, risvegliando ansie sopite e strani presagi. Ciò malgrado,
non gli passava affatto per la mente di alzarsi e andare a stringere
le maniglie di quel maledetto rubinetto. Preferiva sperare che
un’altra telefonata rifacesse esplodere di squilli il suo
apparecchio, per coprire il rumore delle gocce e alleviare, sia pure
per poco, il pizzicore ai nervi.
Da tempo il cellulare non dava così intensi segni
di vita. Anche questo, in fondo, era un segno ben accetto. Pochi mesi
addietro, nel corso di una vita precedente ormai fantasma, era solito
rispondere a decine di telefonate al giorno. Erano i tempi del
successo e della BMW decappottabile. Tempi grassi, folli e malati.
Notti da esorcizzare con un quadrifoglio delicatamente piegato in un
taschino. Altri tempi.
Tutto ciò che rimaneva adesso erano gocce e
ricordi. Poi gli squilli del cellulare. Poi, di nuovo, gocce e
ricordi.
Un’ora passò così, con il sedere che si
appiattiva inerme sulla piattaforma fredda e umida di quel davanzale
scomodo, mentre la luce del tramonto proiettava oltre la finestra,
nel salotto vuoto, lunghe ombre.
Se un altro uomo fosse stato lì presente, avrebbe
potuto ammirare, perfettamente contornato sulla parete opposta, la
nera figura di Sergio accovacciato, le braccia strette al petto e un
lungo bastone oltrepassare la spalla. Questo era il Sergio ombra,
somma del suo corpo ripiegato e del lungo fucile che teneva stretto a
sé.
|